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"Il tempo ritrovato è di gran lunga più piacevole di quello perso" (Cit. di Giovanna Albi)

venerdì 14 febbraio 2014

L'estetica dell'oltre di Michela Zanarella David and matthaus 2013

La settima opera della poetessa padovana Michela Zanarella, una voce significativa nell’attuale panorama poetico italiano e internazionale, porta un titolo che diventa manifesto poetico: L’estetica dell’oltre. In essa arrivano a maturazione sorprendentemente elementi già in nuce nella precedente silloge Meditazioni al femminile. Sì, perché la Zanarella, prima che poetessa, è donna nella pienezza del termine, donna in ricerca che si rispecchi nella luce di Dio attraverso il suo grembo e il radicale attaccamento alla storia e alla zolla che sa di polvere tutta umana. La silloge, composta di cinquantatre liriche, tutte di ineccepibile intensità poetica, attraverso luminose metafore e callidae iuncturae, è un inno elevato alla vita che si sublima nella percezione estetica dell’oltre. L’oltre, l’altrove alla Pessoa, esprime tutta la tensione contemplativa della giovane e affermata poetessa, che, per quanto conosca la materialità della dimensione umana, che attraversa con consapevole vitalismo, spinge lo sguardo verso l’infinito in un der dasein mai pago di rappacificarsi con quella dimensione che più di ogni altra pertiene all’uomo sensibile: l’oltre.
Qui si concretizza l’estetica, che credo vada intesa in senso platonico, come percezione ( aìsthesis) del
Bello/Buono assoluto,  precedente alla nostra gettatezza nel mondo, risalente a quel periodo in cui eravamo tutt’uno con la Natura e con Dio. A questa condizione la poesia avverte la tensione a tornare in un nòstos verso la casa del Padre, attraverso un viaggio che accompagna l’anima in una dimensione superiore dalla quale, però, non si dimentica la matrice terrigna dell’uomo, la sua necessità tutta umana di essere carne, lacrime e sangue, zolla, radice, albero ben piantato nella storia.
Sicché la silloge si snoda tra due dimensioni: la terra e il cielo e, in metafora, la madre-terra e il padre-cielo, due realtà che insieme consentono all’uomo mortale una situazione di equilibrio interiore; le poesie della Zanarella sono sensuali e carnali, certa che “Forse soltanto l’amore/sa riempire le superfici nude/dei miei sensi”, ma al contempo rarefatte e trasparenti come la luce che promana dalla percezione dell’eterno.
Il binomio intorno a cui sembra ruotare la silloge trova voce nella lirica “Dove la vita”, in cui il sangue ( la carnalità) si specchia nella “materna espressione di amore”, in tensione verso la luce (il cielo), dove si incrocia lo sguardo con il “colore della fede”. Una fede fervida e profonda permea i versi , senza indulgere a nessuna forma di misticismo esasperato, perché Zanarella è anzitutto donna che palpita di amore, di sentimenti veri e umani, donna che ricorda che il limite e la finitezza sono dati strutturali dell’esistenza e che la vita è leopardianamente tensione tra il finito del corpo e l’aspirazione all’infinito, che si ritrova nella percezione dell’oltre. Tale consapevolezza non assume però i toni drammatici dell’ateo genio di Recanati, ma equilibrata compostezza che si realizza nel contemperamento armonico delle due dimensioni,  i due volti della realtà umana. Esserci su questa terra, con tutta se stessa, con il suo giovane e pur ricco bagaglio di esperienze personali, è la scelta radicale di una poetessa che maternamente ama la vita orgogliosa di quel grembo docile da cui ha “appreso come suonano sembianze di luce”. In queste poche e metaforiche parole la sintesi della sua concezione del mondo: punto di incontro tra il grembo materno e l’aspirazione alla luce che sinesteticamente suona, perché la poetessa è lì tutta protesa  ad ascoltare quanto “le sembianze di luce” hanno da comunicarle ora che l’eterno si è fatto carne che odora di madre.
L’elemento femminile “il grembo” si fa eterno “la luce”, così come, rivolgendosi al padre, dice:” Accanto a mia madre/hai mutato paure in presenze di luce” in una felice e proficua compenetrazione tra l’elemento maschile e quello femminile, mentre è proprio la donna al centro del Pàntheon, è lei foriera di luce, è lei che fuga le paura dell’uomo-padre. Tutto umano, nel senso più elevato del termine, il padre, radicato nel colore della terra, quel padre con cui la poetessa condivide la pelle, il destino di imperfezione.
Trovo che il fascino della raccolta sia racchiuso in questo movimento che spinge al contempo verso il basso e verso l’alto, mettendoci a contatto con le realtà che umanamente ci pertengono: la terra, il sangue, la luce.
Una luce che permea nelle cose e metaforicamente, dantescamente, guida l’itinerario poetico ed esistenziale della Zanarella, una luce, che è anche memoria della storia personale ed universale, una luce che illumina all’uscita dalla caverna della carne, della quale però la poetessa non fa a meno. La poesia si fa anche civile, è un monito a non dimenticare:  “è nostro dovere/tenere in luce/tutte le lacrime perse tutte le lacrime perse nei secoli/le febbri del passato, che ha circondato l’umanità di opaco dolore”.
Sottolineo ancora la luce della poesia che illumina le ombre di un passato da non dimenticare, mentre quell’opacità del dolore richiama alla memoria il mondo pascoliano come “atomo opaco del male”.
La poesia come luce credo sia di derivazione saffica, come potrebbe infatti la poetessa Zanarella fare a meno del riferimento alla saffica femminilità di versi che risplendono nella luce dell’eterno? La poesia illumina, guida, ammonisce, stordisce col suo fulgore e richiama in vita chi non c’è più, come nei versi dedicati ad Ottavio e a Sebastiano: “E ricordo tutte le albe/che il cielo ti ha concesso,/il sacrificio dei boschi/il fieno che hai portato sulle spalle/fino a segnarti le guance di fatica”. La poesia si fa ricordo e celebrazione dell’estinto, impregnato di sudore e fatica, quindi colto nella sua dimensione radicalmente umana e pur ritorna la luce dell’arcobaleno: “E un arcobaleno/ricompone voci spente, posa le resine/del tuo essere stato”. Mentre il caro Sebastiano è sereno nella “fertile luce che muta la fine/in dolce memoria/che s’inchina”, in quel punto in cui rifulge l’estetica dell’oltre.
Non mancano i consueti riferimenti ad Alda Merini e al poeta di Monteverde, Pier Paolo Pasolini, dove la forza della parola poetica illumina il buio della notte, che il poeta non teme, benché nell’intimo abisso sia “incisa la costola del dolore”: ecco che la parola risana dalle ferite della storia, come quella della Zanarella che è sostanzialmente luce materna che libera e consola. Parimenti la poesia di Alda Merini  “rovesciando le polveri/ in sillabe e colori/ eleva al cielo “le radici del profondo”. La poesia safficamente eternatrice, l’unica in grado di trasformare la polvere in sillabe e colori. Che sia presente Saffo nella poesia della Zanarella si desume anche dalla lirica Afrodite: “L’amore sta in un pugno/di brividi, sul fogliame umano/che s’apre a profezia di schiume”, laddove i brividi di amore ricordano tanto la poetessa di Lesbo, ma nella Zanarella l’amore è radicalmente legato alla terra, a quel “fogliame” che ci ricorda l’umana precarietà dell’essere, mentre in Saffo l’amore è fulgore eterno di luce rarefatta. Terra, Cielo, Tempo: questi i fili rossi della intensa silloge della Zanarella; il trascorrere di quest’ultimo è un dato ineludibile e inequivocabile di realtà, il tempo piaga il tessuto umano: “Scrivere del cielo/senza privare la luna/dell’onda/non basta a lenire le piaghe del tempo”. Versi stupendi in cui l’elevazione poetica verso il cielo non cura dalle ferite del tempo, del “reo tempo”, sicché non ci si può disfare “del capriccio che abita le stagioni”. Tale percezione che ci tiene confinati al tempo che scandisce i ritmi stagionali entra in frizione con la tensione verso l’infinito sentire, mentre sinesteticamente “tace l’odore di lacrima”. Ma questo silenzio della lacrima è atto poetico, mentre quotidianamente si soffre per l’inevitabile trascolorare del tutto. A conclusione, auguro a Michela che la sua poesia rifulga di quella luce eterna che promana dai suoi versi e che essa vinca “di mille secoli il silenzio”.


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