La settima opera della poetessa
padovana Michela Zanarella, una voce significativa nell’attuale panorama
poetico italiano e internazionale, porta un titolo che diventa manifesto
poetico: L’estetica dell’oltre. In essa arrivano a maturazione
sorprendentemente elementi già in nuce nella precedente silloge Meditazioni al
femminile. Sì, perché la Zanarella, prima che poetessa, è donna nella pienezza
del termine, donna in ricerca che si rispecchi nella luce di Dio attraverso il
suo grembo e il radicale attaccamento alla storia e alla zolla che sa di
polvere tutta umana. La silloge, composta di cinquantatre liriche, tutte di
ineccepibile intensità poetica, attraverso luminose metafore e callidae
iuncturae, è un inno elevato alla vita che si sublima nella percezione estetica
dell’oltre. L’oltre, l’altrove alla Pessoa, esprime tutta la tensione contemplativa della giovane e affermata
poetessa, che, per quanto conosca la materialità della dimensione umana, che attraversa con consapevole
vitalismo, spinge lo sguardo verso l’infinito in un der dasein mai pago di
rappacificarsi con quella dimensione che più di ogni altra pertiene all’uomo
sensibile: l’oltre.
Qui si concretizza l’estetica,
che credo vada intesa in senso platonico, come percezione ( aìsthesis) del
Bello/Buono assoluto, precedente alla
nostra gettatezza nel mondo, risalente a quel periodo in cui eravamo tutt’uno
con la Natura e con Dio. A questa condizione la poesia avverte la tensione a
tornare in un nòstos verso la casa del Padre, attraverso un viaggio che
accompagna l’anima in una dimensione superiore dalla quale, però, non si dimentica
la matrice terrigna dell’uomo, la sua necessità tutta umana di essere carne,
lacrime e sangue, zolla, radice, albero ben piantato nella storia.
Sicché la silloge si snoda tra
due dimensioni: la terra e il cielo e, in metafora, la madre-terra e il
padre-cielo, due realtà che insieme consentono all’uomo mortale una situazione
di equilibrio interiore; le poesie della Zanarella sono sensuali e carnali,
certa che “Forse soltanto l’amore/sa riempire le superfici nude/dei miei
sensi”, ma al contempo rarefatte e trasparenti come la luce che promana dalla
percezione dell’eterno.
Il binomio intorno a cui
sembra ruotare la silloge trova voce nella lirica “Dove la vita”, in cui il
sangue ( la carnalità) si specchia nella “materna espressione di amore”, in
tensione verso la luce (il cielo), dove si incrocia lo sguardo con il “colore
della fede”. Una fede fervida e profonda permea i versi , senza indulgere a
nessuna forma di misticismo esasperato, perché Zanarella è anzitutto donna che
palpita di amore, di sentimenti veri e umani, donna che ricorda che il limite e
la finitezza sono dati strutturali dell’esistenza e che la vita è
leopardianamente tensione tra il finito del corpo e l’aspirazione all’infinito,
che si ritrova nella percezione dell’oltre. Tale consapevolezza non assume però
i toni drammatici dell’ateo genio di Recanati, ma equilibrata compostezza che si
realizza nel contemperamento armonico delle due dimensioni, i due volti della realtà umana. Esserci su
questa terra, con tutta se stessa, con il suo giovane e pur ricco bagaglio di
esperienze personali, è la scelta radicale di una poetessa che maternamente ama
la vita orgogliosa di quel grembo docile da cui ha “appreso come suonano
sembianze di luce”. In queste poche e metaforiche parole la sintesi della sua
concezione del mondo: punto di incontro tra il grembo materno e l’aspirazione
alla luce che sinesteticamente suona, perché la poetessa è lì tutta
protesa ad ascoltare quanto “le
sembianze di luce” hanno da comunicarle ora che l’eterno si è fatto carne che
odora di madre.
L’elemento femminile “il grembo”
si fa eterno “la luce”, così come, rivolgendosi al padre, dice:” Accanto a mia
madre/hai mutato paure in presenze di luce” in una felice e proficua
compenetrazione tra l’elemento maschile e quello femminile, mentre è proprio la
donna al centro del Pàntheon, è lei foriera di luce, è lei che fuga le paura
dell’uomo-padre. Tutto umano, nel senso più elevato del termine, il padre,
radicato nel colore della terra, quel padre con cui la poetessa condivide la
pelle, il destino di imperfezione.
Trovo che il fascino della
raccolta sia racchiuso in questo movimento che spinge al contempo verso il
basso e verso l’alto, mettendoci a contatto con le realtà che umanamente ci
pertengono: la terra, il sangue, la luce.
Una luce che permea nelle cose e
metaforicamente, dantescamente, guida l’itinerario poetico ed esistenziale
della Zanarella, una luce, che è anche memoria della storia personale ed
universale, una luce che illumina all’uscita dalla caverna della carne, della
quale però la poetessa non fa a meno. La poesia si fa anche civile, è un monito
a non dimenticare: “è nostro dovere/tenere in luce/tutte le lacrime perse
tutte le lacrime perse nei secoli/le febbri del passato, che ha circondato l’umanità
di opaco dolore”.
Sottolineo ancora la luce della poesia che illumina le ombre
di un passato da non dimenticare, mentre quell’opacità del dolore richiama alla
memoria il mondo pascoliano come “atomo opaco del male”.
La poesia come luce
credo sia di derivazione saffica, come potrebbe infatti la poetessa Zanarella
fare a meno del riferimento alla saffica femminilità di versi che risplendono
nella luce dell’eterno? La poesia illumina, guida, ammonisce, stordisce col suo
fulgore e richiama in vita chi non c’è più, come nei versi dedicati ad Ottavio
e a Sebastiano: “E ricordo tutte le albe/che il cielo ti ha concesso,/il
sacrificio dei boschi/il fieno che hai portato sulle spalle/fino a segnarti le
guance di fatica”. La poesia si fa ricordo e celebrazione dell’estinto,
impregnato di sudore e fatica, quindi colto nella sua dimensione radicalmente
umana e pur ritorna la luce dell’arcobaleno: “E un arcobaleno/ricompone voci
spente, posa le resine/del tuo essere stato”. Mentre il caro Sebastiano è
sereno nella “fertile luce che muta la fine/in dolce memoria/che s’inchina”,
in quel punto in cui rifulge l’estetica dell’oltre.
Non mancano i consueti
riferimenti ad Alda Merini e al poeta di
Monteverde, Pier Paolo Pasolini, dove la forza della parola poetica illumina
il buio della notte, che il poeta non teme, benché nell’intimo abisso sia
“incisa la costola del dolore”: ecco che la parola risana dalle ferite della
storia, come quella della Zanarella che è sostanzialmente luce materna che
libera e consola. Parimenti la poesia di Alda Merini “rovesciando le polveri/
in sillabe e colori/ eleva al cielo “le radici del profondo”. La poesia
safficamente eternatrice, l’unica in grado di trasformare la polvere in sillabe
e colori. Che sia presente Saffo nella poesia della Zanarella si desume anche
dalla lirica Afrodite: “L’amore sta in un pugno/di brividi, sul fogliame
umano/che s’apre a profezia di schiume”, laddove i brividi di amore ricordano
tanto la poetessa di Lesbo, ma nella Zanarella l’amore è radicalmente legato
alla terra, a quel “fogliame” che ci ricorda l’umana precarietà dell’essere,
mentre in Saffo l’amore è fulgore eterno di luce rarefatta. Terra, Cielo, Tempo:
questi i fili rossi della intensa silloge della Zanarella; il trascorrere di
quest’ultimo è un dato ineludibile e inequivocabile di realtà, il tempo piaga
il tessuto umano: “Scrivere del cielo/senza privare la luna/dell’onda/non basta
a lenire le piaghe del tempo”. Versi stupendi in cui l’elevazione poetica verso
il cielo non cura dalle ferite del tempo, del “reo tempo”, sicché non ci si può
disfare “del capriccio che abita le stagioni”. Tale percezione che ci tiene
confinati al tempo che scandisce i ritmi stagionali entra in frizione con la
tensione verso l’infinito sentire, mentre sinesteticamente “tace l’odore di
lacrima”. Ma questo silenzio della lacrima è atto poetico, mentre
quotidianamente si soffre per l’inevitabile trascolorare del tutto. A
conclusione, auguro a Michela che la sua poesia rifulga di quella luce eterna
che promana dai suoi versi e che essa vinca “di mille secoli il silenzio”.